di Luigi Adriano Tonizzo
Ma davvero i giovani hanno rinunciato a combattere per il proprio futuro scendendo sempre meno in piazza a manifestare?
La risposta a questa domanda è tutt’altro che scontata, e sicuramente non troverete nelle prossime righe la risposta definitiva.
Tuttavia per fare un po’ di chiarezza e tentare di immergerci in argomento assai complesso ci vengono in aiuto i dati SWG che nella sua rilevazione settimanale, prendendo spunto dalle proteste in Francia e Israele, ha chiesto al campione quanto una rivolta di questo tipo possa realmente portare ad un cambiamento.
Vediamo subito questi dati.
Se tra i 35-64enni la manifestazione di piazza appare infatti come uno strumento ancora utile alla causa, così non è per Gen Z e Millennials dove (seppure con qualche dubbio) prevale il disaccordo.
Questo significa che i giovani hanno smesso di far sentire la propria voce? Non direi.
Piuttosto significa che il ruolo di queste proteste assume un significato diverso tra giovani e meno giovani. E a mio avviso ci sono almeno due aspetti (inequivocabilmente connessi) che è utile sottolineare.
Le nuove generazioni sono sempre più restie a scendere in piazza perché si sono convinte (più o meno giustamente) che questo atto non possa in alcun modo portare ad un cambiamento dello status quo. Lo abbiamo visto chiaramente con il movimento Friday for Future (Greta per intenderci) che dopo un primo boom e andato via via scemando perdendo la verve iniziale proprio perché i giovani non hanno percepito un cambiamento reale della situazione (o perlomeno non quanto si sarebbero aspettati).
Questa rassegnazione fa si che emerga il secondo aspetto rilevante.
Se la fiducia verso uno strumento cala cosa si fa? Facile, si cambia lo strumento.
Quindi, tornando alla domanda iniziale, davvero i giovani hanno smesso di combattere per il proprio futuro? Certamente no, ma lo fanno sempre più nell’unico luogo in cui sentono di essere ascoltati, capiti e ritengono di poter fare la differenza: i social.